L’art. 111 bis c.p.p., al pari in verità delle altre norme del codice e delle fonti regolamentari, non individua una sanzione applicabile nell’ipotesi in cui il difensore ricorra a modalità alternative di deposito ‒ cartacea o PEC ‒ di atti per i quali è invece previsto in via esclusiva l’uso del portale. La questione appare di particolare interesse nel caso di atti soggetti a termini di decadenza (lista testi, impugnazioni) o altrimenti esposti al rischio di eccezioni sul piano della procedibilità (querela) o dell’ammissibilità (opposizione alla richiesta di archiviazione).
Nel silenzio, non sembrano anzitutto invocabili, sia perchè tassative, sia perché più propriamente chiamate a censurare patologie dell’atto e non del suo deposito, le categorie generali di invalidità e inammissibilità previste dal codice.
In relazione all’uso della PEC, una risposta coerente dal punto di vista logico e sistematico è invece quella dell’inefficacia, offerta dall’art. 87, comma 5 quinquies, D. Lgs. 150 2022, disposizione da ritenersi ancora oggi in vigore poiché, a differenza degli altri commi, non è ancorata all’emanazione dei regolamenti previsti dal comma 1. La norma testualmente prevede che per gli atti individuati ai sensi del comma 6 ter ‒ norma aperta che legittima uno o più Decreti ministeriali, quale è il D.M. 204 del 2024, a selezionare quelli rispetto ai quali è ammesso l’uso del portale ‒ “l’invio tramite posta elettronica certificata non è consentito e non produce alcun effetto di legge”.
Nel caso del deposito non consentito con modalità cartacea, in difetto di una disposizione espressa che ne precluda l’efficacia o ne sanzioni altrimenti l’irritualità, rimane invece aperta la questione se il rigore formale debba comunque prevalere sulla circostanza che, salvo l’onere del difensore di verificarlo in concreto, l’atto sia stato ricevuto dall’ufficio destinatario e inserito nel fascicolo, raggiungendo così il suo scopo.
Sul punto, si possono in questa sede richiamare solo superficialmente gli orientamenti, a dire il vero altalenanti, coniati dalla giurisprudenza prima dell’emergenza pandemica e che, da una parte, in relazione ai casi di trasmissione, all’epoca non consentita, della lista testi mediante fax (Cassazione penale, sez. II, 1 marzo 2016, n. 23343) o dell’istanza di rinvio (Cassazione penale, sez. VI, 25 settembre 2019, n. 2951), privilegiavano al rigore formalistico l’effettivo raggiungimento della comunicazione all’Autorità giudiziaria destinataria, dall’altra, nel caso dell’impugnazione, negavano invece validità alle modalità di deposito alternative a quelle tassativamente previste dal legislatore.
La categoria dell’inammissibilità dell’atto è di contro espressamente e tassativamente invocata dall’art. 87 bis D. Lgs. 150 del 2022 con esclusivo riferimento alle impugnazioni depositate a mezzo PEC, nell’ipotesi in cui queste siano destinate a un indirizzo diverso da quelli “depositoattipenali” individuati dal provvedimento del D.G.S.I.A. Una patologia, dunque, non tanto rivolta a sanzionare il mezzo utilizzato, quanto l’errata scelta della casella di destinazione.