Secondo il Dizionario della lingua italiana, “abilitare” significa “rendere abile”, quindi attribuire a qualcuno una capacità o un potere di cui non sarebbe altrimenti titolare. L’introduzione dell’atto abilitante quale allegazione necessaria e, dunque, potenzialmente ostativa del deposito della nomina nella fase delle indagini, e con essa degli atti difensivi successivi, rivela quindi, anche sul piano lessicale, in maniera spudorata e senza alcuna falsa ipocrisia, una precisa visione della difesa del cittadino: un diritto non liberamente esercitabile, come dovrebbe essere in qualsiasi Paese civile e democrazia moderna, ma condizionabile e di fatto condizionato telematicamente dall’esterno.
Una deriva autoritaria ancora più preoccupante se si pensa che l’atto abilitante è stato introdotto per mano di una norma regolamentare emanata da un Dirigente ministeriale, non solo in assenza di alcuna legittimazione o riserva normativa in materia penale, ma in evidente violazione delle fonti primarie, oltre che costituzionali: su tutte, l’articolo 96 c.p.p. che invece attribuisce al difensore, ed è banale spiegare la ragione, il potere di comunicare la propria nomina all’autorità giudiziaria procedente immediatamente, sempre che, e anche questo è altrettanto logico, sia ancorata a un procedimento esistente.
Queste le conseguenze sul piano pratico.
Se il difensore non è in possesso di un atto che contiene il numero di notizia di reato, non potrà depositare la propria nomina, là dove è obbligatorio. Dovrà quindi attendere i tempi di rilascio della certificazione ex art. 335 c.p.p.: fino a 50 giorni, nella Capitale, stando alla dichiarazione di astensione proclamata dalla Camera penale di Roma, non meno di una settimana in qualsiasi altra Procura italiana. Tutta materia, se c’è qualcuno in ascolto, per ispezioni ministeriali.
Nelle more, l’avvocato rimarrà disabilitato all’esercizio dell’attività difensiva, nonostante abbia ricevuto mandato dal suo assistito. Senza andare troppo lontano, questo riguarda qualsiasi difensore nominato dopo la presentazione di una querela depositata personalmente dalla persona offesa. Ed ancora, l’avvocato indicato in sede di identificazione o successivamente ad essa, se l’atto non contiene il numero di notizia di reato.
Ma qual è la ragione di tutto questo rigore?
Ce lo spiega il “Vice capo Dipartimento per l’innovazione tecnologica della Giustizia”, senza giri di parole, con una nota del 6.2.2025: evitare il deposito di nomine generiche che, in assenza di R.G.N.R., potrebbero essere funzionali a esplorare l’esistenza di un procedimento in violazione dell’articolo 335 c.p.p.
Una motivazione che, da una parte, suona una musica di sottofondo odiosa e offensiva, e cioè che il difensore possa utilizzare espedienti ai limiti dell’illecito, quantomeno deontologico, per conoscere l’esistenza di iscrizioni, e che dall’altra non ne spiega la utilità in tutti gli altri casi.
Cosa c’entra infatti il pericolo di nomine esplorative quando è certa al difensore l’esistenza di un procedimento? Tornano gli esempi della nomina successiva a una querela depositata dalla persona interessata o di quella effettuata in sede di identificazione o successivamente ad essa, se l’atto non contiene indicazione del numero di N.R. In questi casi, il difensore non potrà depositare al portale né la nomina, né di conseguenza atti ad essa successivi, nonostante il procedimento sia iscritto e l'avvocato non abbia dunque né la possibilità, né l’interesse a esplorare alcunché. Ma non è finita.
Quando il difensore è comunque a conoscenza dell’esistenza di un procedimento e del numero di N.R., ad esempio gliel'ha detto oralmente il precedente legale o l'assistito, i quali non hanno conservato alcun atto allo scopo, qual è la ragione per la quale è comunque tenuto a dimostrare come l’ha saputo e non può, invece, assai più modestamente, limitarsi ad attestarlo?
Anche qui, ritorna sempre la solita musica di sottofondo: si vuole aggirare il rischio che l’avvocato utilizzi informazioni che – se non siamo stupidi e abbiamo capito bene – egli ha ottenuto al di fuori dei modi consentiti dalla legge. Ancora peggio, come insinuazione.
C’è spazio dunque, da quasi 5 anni, per proclamare astensioni in ambito nazionale e non citare finalmente - con insopportabile retorica - l’art. 24 Cost. Invece, a parte qualche timida protesta e voce isolata, assistiamo complici al silenzio assordante dell’Avvocatura intera, del mondo accademico e della magistratura. È forse giunto il tempo di fare o dire qualcosa?